L’anatocismo nell’ordinamento Italiano

La storia dell’anatocismo bancario nell’ordinamento giuridico italiano è caratterizzata, fin dal suo inizio, da una netta contraddizione di fondo. Se è infatti vero che, ai sensi dell’articolo 1823 del codice civile, l’anatocismo è sempre stato vietato, è altrettanto vero che, in base alla giurisprudenza e all’uso corrente, la pratica di calcolo degli interessi sugli interessi passivi, e quindi della loro effettiva capitalizzazione su base trimestrale, era assolutamente avallata e quindi non illegittima. E questo nodo legale continuò a permanere per molti anni, se pensiamo che la revisione della legge sull’anatocismo non iniziò a concretizzarsi in maniera sensibile se non con la sentenza della Cassazione del novembre 2004.

Possiamo identificare però una traccia dell’inizio del dibattito già cinque anni prima, nel ’99, quando il Decreto Legislativo 342 iniziò a prevedere che fosse possibile stabilire i criteri della maturazione degli interessi sugli interessi solamente in un regime di uguale periodicità fra saldi passivi e saldi attivi – e non quindi, come era consuetudine, agendo su base trimestrale per i passivi e annuale per gli attivi. Fu poi il CICR, nel 2000, a ufficializzare l’obbligo per gli istituti Bancari di riconoscere ai titolari di conto corrente una periodicità pari alla propria nel calcolo degli interessi. Rimaneva però, nel decreto del ’99, una sanatoria di fatto per tutta la situazione pregressa, in base alla quale venivano considerate legittime le clausole per capitalizzazione trimestrale nei contratti stipulati in precedenza: una norma palesemente incostituzionale, come venne poi deliberato appunto dalla Corte alla fine del 2000.

Si giunge così al 2004, e alla conclusione del percorso, quando la sentenza 21095 della Cassazione stabilì inequivocabilmente che anche i pregressi addebiti anatocistici erano illegittimi, sostenendo, come illustrato dai fatti, che l’uso che aveva permesso tale capitalizzazione fosse non normativo, ma negoziale. Mancava infatti di un tratto essenziale: i correntisti non avevano accettato l’anatocismo praticato dalle banche perché fossero convinti che fosse legale (il che l’avrebbe qualificato come uso normativo), ma perché era il solo modo di aprire un conto corrente, e l’uso stesso non faceva perciò in alcun modo giurisprudenza. Vi fu un ultimo tentativo da parte del legislatore di contravvenire a questa decisione, nel decreto milleproroghe del 2010, quando si tentò di ricalcolare la prescrizione in senso favorevole agli istituti bancari; ma anche tale norma fu, nel 2012, dichiarata assolutamente incostituzionale dalla Corte, che ha quindi confermato, ormai definitivamente, il diritto a rivalersi sulle banche per l’anatocismo effettuato.